E’ dolce per tutti tranne gli agricoltori che lo coltivano. Le fave di cacao, ingrediente base del cioccolato, sono un frutto prezioso per l’economia mondiale, che su questo prodotto ha costruito un mercato da circa 50 miliardi di dollari l’anno.
Peccato che di queste cifre ai produttori principali – ovvero i piccoli contadini che coltivano le piante di cacao in Costa d’Avorio
e Ghana, che insieme garantiscono più del 60% delle forniture mondiali di fave – ne rimanga in tasca una frazione minima.
Ma la situazione sta per cambiare, con probabili ripercussioni sul costo finale delle tavolette di cioccolato che finiscono sulle nostre tavole.
Per ovviare alla povertà endemica che affligge i suoi contadini, per la prima volta i due Paesi africani hanno unito le forze per imporre prezzi più equi ai grandi compratori che rivendono le fave a marchi come Nestlé, Ferrero, Mars, Mondelez e Hershey.
All’inizio dell’estate, i rappresentanti di Ghana e Costa d’Avorio hanno provato a imporre un prezzo minimo. Ma davanti al muro opposto dai compratori hanno desistito, optando invece per l’adozione di un balzello fisso di 400 dollari a tonnellata da aggiungere al prezzo di mercato a partire dalla stagione 2020/21.
Nell’intenzione dei governi di Abidjan e Accra, i soldi così accumulati serviranno per creare un fondo per combattere la povertà dei contadini locali, stabilizzando le quotazioni del cacao e compensando eventuali cadute sotto una certa soglia.
Secondo la Banca Mondiale, il 55% dei contadini ivoriani vive con circa € 1,15 al giorno, sotto la linea della povertà assoluta. E quasi l’80% dei profitti generati dal mercato del cioccolato resta nelle mani di chi trasforma le fave e distribuisce i prodotti finali, due fasi da cui il Paese è praticamente escluso.
Ma mentre la maggior parte di produttori di cioccolato ha supportato pubblicamente l’iniziativa di Ghana e Costa d‘Avorio, alcuni trader hanno risposto con diffidenza, prevedendo che il nuovo balzello li avrebbe spinti a fare più affari con i produttori sudamericani, creando così un surplus di offerta dall’Africa che poteva abbassare ulteriormente i prezzi.
I due Paesi allora hanno risposto annunciando nei giorni scorsi l’imposizione di un tetto limite alla produzione locale a 2 milioni di tonnellate a partire dalla prossima stagione. Per avere un termine di paragone, la Costa d’Avorio stima di chiudere la produzione di quest’anno a 2,2 milioni di tonnellate di cacao. E la mossa sembra aver pagato: i primi contratti per la vendita del raccolto 2020/21, che include il balzello da 400 dollari a tonnellata, sono già stati firmati.
Ma la guerra africana del cioccolato non finisce qui. I due vicini hanno messo nel mirino anche le certificazioni che dovrebbero garantire la sostenibilità dei prodotti. Fino ad oggi, anziché affidarsi a società esterne, molti produttori come Mars e Nestlé hanno preferito fregiarsi di marchi di sostenibilità fai-da-te, adottando programmi volontari che avrebbero dovuto valorizzare la redditività delle piantagioni garantendo benefici alle comunità locali. Queste auto-certificazioni sono preziose sui mercati occidentali, sempre più attenti all’ambiente e alla sostenibilità dei prodotti. Ma di fatto non hanno migliorato la situazione dei piccoli produttori di fave.
Secondo un report dell’anno scorso, il livello di sfruttamento di mano d’opera infantile nei due paesi dell’Africa Occidentale è in continuo aumento e oggi coinvolge 2,1 milioni di bambini.
Al punto che, nei mesi scorsi, due senatori statunitensi hanno chiesto al governo di Washington di vietare le importazioni nel mercato a stelle e strisce di cioccolato prodotto attraverso sfruttamento infantile, una mossa che, se attuata, rischia di mettere in ginocchio le economie dei produttori africani. Anche per questo i governi di Accra e Abidjan hanno deciso di prendere le redini della situazione, imponendo nuovi standard e limitando la possibilità dei grandi marchi di autocertificare il loro cioccolato come sostenibile. Se poi davvero questo riuscirà a cambiare in meglio la situazione dei piccoli coltivatori di fave di cacao, è tutto da vedere. Certo è che il braccio di ferro è seguito con interesse anche dalle nazioni produttrici di caffè, altro settore che avrebbe tanto da imparare su come ridistribuire verso il basso parte dei ricchi proventi del mercato globale.